Pubblichiamo l’elaborato di Daniela Lamanuzzi, di classe 5D – Scienze Applicate, scritto in occasione del XXIII Campionato di Filosofia Philolympia con traccia di ambito estetico sulla Critica del Giudizio di Immanuel Kant.
INTRODUZIONE: La “Critica del Bello”: cosa effettivamente definiamo tale
Dare una definizione a qualcosa di pienamente soggettivo nel giudizio risulta essere cosa ardua, se non quasi impossibile, e Kant nella Critica del Giudizi lo rende noto fin dal principio. Come è possibile definire il bello, se di questo non ne esiste una scienza esatta, ma, come ci suggerisce il filosofo, è possibile farne solo una critica? Tutta la filosofia kantiana si basa su questo, cioè guardare la realtà intorno all’uomo in un’ottica diversa, attraverso lo strumento fondamentale del criticismo, inteso come un’analisi profonda che mira ad analizzare minuziosamente i confini della conoscenza umana.
Tutto può essere soggetto ad una critica, tranne ciò che è “scientifico” e definito a priori, ma non è questo il caso del bello. Definiamo bello ciò che smuove quello che abbiamo dentro, quello che ci arricchisce e ci appaga, che ci permette di guardare quello che abbiamo intorno e di capirne il senso. Per questo Kant afferma che non esiste una bella scienza, in quanto non rispecchierebbe i canoni ipotizzati precedentemente, ma può esistere esclusivamente una bella arte, affermazione che ci pone interminabili interrogativi, poiché ancora non possiamo comprendere cosa davvero ci spinge a riconoscere il bello. Oltre a questo concetto, si presenta ora un qualcosa di nuovo che l’accompagna, la definizione di ciò che è arte, e in che modo questa possa legarsi alla bellezza.
ARTE COME RAPPRESENTAZIONE O VIA DI FUGA?
Parlare di arte senza definire dei criteri ci porterebbe a pensare ad essa come il risultato di un semplice meccanismo di riproduzione, senza altro scopo, se non quello di riportare nella maniera più veritiera e affine la realtà alla vista e alla portata dell’uomo, ma per Kant e molti altri filosofi, l’arte non è solo questo. Quella a cui ci riferiamo è quindi “l’arte estetica”, capace di provocare qualcosa, un sentimento che il filosofo in questione definisce piacere. Un piacere che allevia i dolori, che ci permette di giungere ad una conoscenza diversa, anche di se stessi e dei propri sentimenti, che nel linguaggio attuale definiamo con l’appellativo di Sindrome di Stendhal, una vera e propria ondata di emozioni in quello che identifichiamo come osservatore. Ma l’arte non va riconosciuta solo in qualcosa di visivo, può infatti presentarsi nelle forme più disparate, in quanto essa è frutto di un’intuizione geniale, concetto sul quale ci soffermeremo a breve. Nel mondo filosofico però, non solo per Kant ma anche per Schopenhauer, l’arte rappresenta una via risolutiva. Diversi sono gli aspetti coincidenti, o quasi, tra i due, che portano il primo ad essere ispiratore dell’altro. Per Schopenhauer troviamo, però, l’arte in un contesto differente, diventa per l’uomo una via di salvezza, o meglio, una via di fuga da quella che è la condanna della volontà di vivere. Egli individua infatti tre vie di liberazione, rappresentate dall’arte, la morale e l’ascesi, ma quella su cui ci interessa soffermarci è la prima. L’arte diventa al contempo strumento e possibilità per estraniarsi dalla volontà di vivere e poter contemplare la vita nella sua forma più arcaica e pura, ritrovando in essa il vero volto della realtà. Allo stesso modo potremmo dire che anche Hegel ritrova nell’arte una via di liberazione, una via attraverso la quale potrà giungere alla verità e alla scoperta dell’assoluto, in quanto essa, specialmente nella sua forma più antica, rappresenta la perfezione.
L’ORIGINE DELL’ARTE: IL GENIO
Abbiamo analizzato l’importanza che l’arte può assumere nella vita dell’uomo, e come può portare sollievo alla stessa, un’analisi che è molto più antica di quello che crediamo, già con Platone difatti possiamo osservare come il concetto di arte quale riproduzione si evolva. Se nella sua prima visione Platone la criticava in quanto pura illusione e copia, comprende poi come l’arte potrebbe effettivamente diventare utile all’uomo, nonostante la consapevolezza che questa sia qualcosa di puramente fittizia e irreale. Come è possibile però, da parte dell’uomo, dare origine a qualcosa di così tanto spettacolare da poter diventare il modo per dare il senso alla propria esistenza? Kant ci conduce alla verità del genio, definito come talento, radicato all’interno del soggetto e ricevuto come un dono, capace di dare egli stesso una regola all’arte. Ma fin quando possiamo attribuire questo genio all’essere umano? A questo proposito potremmo ipotizzare teorie fantasiose, immaginando che questo sia il dono da parte di un ipotetico Dio o che possa essere contenuto tra le idee presenti nell’iperuranio di Platone, ma Kant preferisce attribuire tutto questo alla natura, in quanto il genio da solo non è capace di produrre “l’arte bella”, così come lui la definisce.
In parte però, anche Schopenhauer aveva intuito che l’arte venisse da qualcosa di più di una semplice capacità, ma che soprattutto solamente menti geniali e sensibili potevano arrivare a comprenderla, ed erano infatti coloro che più di tutti soffrivano il peso imposto dalla volontà di vivere, poiché gli unici capaci di capirlo a pieno. Nella società di oggi però è difficile ritrovarlo quel genio, quel talento prezioso che in pochi hanno, poiché tutti si è uguali, poco originali, poco capaci di comprendere veramente le possibilità che abbiamo intorno a noi. L’uniformità e l’assenza di stimoli continui ha interrotto quella che era l’evoluzione del genio, in quanto tutti i modelli sono ormai stati inventati e la nostra condanna è quella di ritornare all’arte meccanicistica e priva di sentimento, quella di copiatura e riproduzione di cui si parlava inizialmente.
L’ANNULLAMENTO DEL GENIO: ASSENZA DI BELLEZZA?
Partendo dallo scritto di Kant siamo giunti all’analisi anche della nostra società, nella quale secondo me sono ancora evidenti i risultati dei processi del conformismo e dell’alienazione iniziatisi a sviluppare nei primi anni del Novecento. Anche il progresso e l’innovazione scientifica hanno contribuito a tutto ciò, nonostante possano essere considerati l’evoluzione di quel genio di cui parlava Kant da una parte, ma dall’altra essi hanno portato ad un punto fermo per quanto riguarda lo sviluppo del bello. Non lo riconosciamo più, neanche nella natura ormai sopraffatta. Tutto è così a noi estraneo. Dove provare quindi a ritrovare la bellezza? Se quello che ci circonda non ci attrae più, non è più motivo di ricerca e di contemplazione del bello, dovremmo, forse, provare a cercare in qualcosa a noi più vicino: il nostro corpo. Perché giungere a questa conclusione?
Riprendo un concetto che Milan Kundera esprime nel suo testo L’insostenibile leggerezza dell’essere, nel quale questo fenomeno viene in parte analizzato. Spesso non ce ne rendiamo conto, ma ciò che più conta nella vita di un uomo e di una donna è il suo corpo. Se non si apprezza e si non contempla nella giusta maniera, esso si snaturerà e non porterà l’essere che lo abita a provare il benessere, il piacere, quello stare bene che ci permetterà poi di saper riconoscere la bellezza, prima in noi stessi e poi in quello che ci circonda.
Il corpo è arte e le popolazioni antiche lo avevano già intuito, i greci soprattutto, i quali ne raffiguravano la perfezione, o ancor prima le popolazioni nomadi, che rappresentavano un corpo prosperoso per attrarre raccolti fertili. Tutta l’arte è contenuta nel corpo, tutta la bellezza che non ci accorgiamo di avere e che spesso dall’intera umanità è stata dimenticata e smarrita.